SALONE DELLA CSR E DELL’INNOVAZIONE SOCIALE – MILANO  – 9 10-11 OTTOBRE 2024

SALONE DELLA CSR E DELL’INNOVAZIONE SOCIALE – MILANO  – 9 10-11 OTTOBRE 2024 – Relazione a cura di Ferdinando Ciccopiedi

Da diversi anni partecipo a laboratori, convegni seminari dedicati alla Responsabilità Sociale d’Impresa (CSR o, secondo l’acronimo anglosassone, Corporate Social  Responsibility) nella convinzione, forse utopica, che il miglior modo per eliminare, o quanto meno ridurre il fenomeno del mobbing, sia quello secondo cui le aziende profit debbano provvedere ad un ambiente di lavoro sereno e al benessere dei dipendenti . Il “frame” – cioè la cornice in cui il concetto di Responsabilità Sociale si inquadra –  è l’ESG (Environmental, social and governance) costituito dagli obiettivi di sviluppo sostenibile per il 2030. Alcuni dei 17 “goal” sono riferibili al settore della salvaguardia dell’ambiente, ma altri lo sono per quanto riguarda il “wellness” delle persone in ambito sociale, a partire dalla lotta alla povertà, alla fame e alle disuguaglianze, fino alla parità di genere e al lavoro dignitoso. Per questo, anche quest’anno ho partecipato al alcuni convegni tenutisi  presso l’Università Bocconi di Milano di fronte ad un folto gruppo studenti e non solo. Il tema era: “Sfidare le contraddizioni” in cui si dibattono aziende, Enti pubblici, Terzo settore verso il raggiungimento degli obiettivi ESG. Nella giornata del 10 ottobre, ben 6 convegni riguardavano temi attinenti a quelli in cui opera l’associazione Risorsa, di cui diamo breve resoconto.

Il primo, intitolato: “Enti del Terzo Settore e Fondazioni d’impresa” si poneva il problema di come le “Fondazioni d’impresa” possano collaborare con altri soggetti che si occupano di problemi sociali e ambientali in spirito di volontariato.

Un altro era intitolato: “Come cambia il mondo del lavoro” ed era incentrato sui nuovi modelli di inserimento delle persone con fragilità, cioè sul rapporto tra domanda e offerta di lavoro, che richiede sensibilità diverse verso tutte le tipologie di lavoratrici e lavoratori

Con “volontariato aziendale, un trend in crescita” si poneva l’attenzione delle imprese alla comunità, e come questo tipo di volontariato abbia ricadute positive sia sui dipendenti che sull’ambiente circostante.

Nel convegno: “Benessere, salute e sostenibilità” si cercava di dare risposta al come il “sistema salute” debba considerare diversi settori, non solo l’ecosistema, ma anche il benessere delle persone

Vorrei a questo punto soffermarmi su altri 2 convegni cui ho partecipato di persona:

“Profit e non profit: quando la collaborazione è win- win”.

I relatori, di cui – secondo la regola editoriale Risorsa  si tralasciano i nomi – hanno esposto alcuni casi in cui le aziende hanno abbandonato il concetto di “filantropia” verso il sociale per abbracciare quello della “collaborazione”. Così è avvenuto sul problema della fame nel mondo, dell’inclusione di soggetti fragili, della dipendenza dal gioco, della de-carbonizzazione e del riciclo, della formazione dei giovani in ambiti tecnico-professionali, delle diseguaglianze che ostacolano la crescita economica e del credito al sociale, nella gestione delle emergenze con micro-finanziamenti e crowdfounding a micro-imprese. In ognuno di questi temi le aziende profit hanno collaborato con enti non profit ed hanno riferito sui risultati ottenuti. Così nella lotta alla fame è stato possibile far collaborare la fondazione di una grande azienda con 40.000 dipendenti e un organizzazione che si avvale di 14 dipendenti e 300.000 volontari nel mondo. Per il problema dell’inclusione, è stato coinvolto il lavoro dei carcerati nel riciclo di abiti usati. Una storica azienda impegnata nella ricostruzione post-bellica ha collaborato con 50 organizzazioni non profitnello scouting del territorio per individuare le esigenze e offrire un “volontariato di competenza” (scrittura di curriculum per favorire l’ingresso al lavoro). La rigenerazione urbana delle periferie ha coinvolto, tramite la collaborazione tra aziende e fondazioni, i giovani neet (che non studiano e non lavorano). La collaborazione tra un’impresa manifatturiera e un ente religioso ha consentito di formare al lavoro studenti con vocazione professionale.

La conclusione principale che ho tratto da queste testimonianze è che le iniziative sono sempre partite da piccole realtà del Terzo Settore dopo l’ascolto delle esigenze della comunità ed hanno trovato la collaborazione delle grandi aziende, soprattutto quando le iniziative sono state premiate con finanziamenti perché ritenute le migliori tra quelle proposte. Significativo è il caso in cui 150 piccole associazioni hanno potuto rendicontare i risultati ottenuti e dimostrare il loro impatto sociale. La principale contraddizione è che le diseguaglianze stanno aumentando poiché le “buone pratiche” sono ancora troppo poche rispetto al panorama industriale e di servizi e perché la realtà italiana è fatta da piccole imprese orientate solo al profitto di breve periodo e resistenti al cambiamento verso il sociale. Un’altra contraddizione è infine data dalla mancanza di continuità dei progetti presentati che potrebbero ottenere più finanziamenti se ripetibili su più anni

Verso un nuovo welfare aziendale

I relatori, prima di presentare testimonianze di welfare aziendale, sottolineano  il significato della “S” dell’ESG, cioè il sociale. Nel sociale devono esservi ricadute sulla comunità e  l’impatto generato deve essere “misurabile”. Ma se nelle aziende le persone devono essere più felici, come misurare la felicità ? E’ questa la prima delle sfide alle contraddizioni e i rappresentanti delle aziende rendono noti i loro progetti di welfare adatti al momento presente, caratterizzato da velocità e lavoro ibrido, con orari e sedi flessibili.. Caratteristica comune ai progetti è che sono partiti dall’ascolto dei dipendenti e recepiti dai responsabili aziendali (processo bottom up). Alcune proposte sono state razionalizzate come quella che chiedeva asili nido aziendali per la quale, anziché creare tanti asili quante sono le aziende disponibili, con dipendenti dislocati magari in più sedi (uffici e fabbriche), si è preferito creare un solo asilo per più aziende o sedi. La realizzazione del welfare aziendale, secondo i relatori, è una leva potente per la fidelizzazione dei lavoratori, che riduce i costi dei turnover in un modo che, almeno in Italia, secondo indagini ah hoc, vedrà sempre meno forza lavoro adulta e più anziani. Il cambiamento di posto di lavoro è provocato da una “promessa tradita” di chi si aspettava un ambiente sereno e si è trovato invece in uno conflittuale (uno casi più eclatanti di mobbing !). A proposito di mobbing è stato rilevato che le cause di lavoro intentate potrebbero essere ridotte solo da un ambiente più sereno, evitando questo tipo di costi alle aziende. Il welfare aziendale può riguardare sia i genitori di bimbi piccoli (vedasi permessi retribuiti di paternità) sia i “care giver” di genitori anziani. Partendo dal problema dei care givers, viene sottolineato che, da indagini svolte dall’Università di Bologna, tra i “benefit” attesi dal welfare aziendale, questo problema non è stato posto dai lavoratori. Eppure i figli minori coinvolgerebbero il 36% dei lavoratori intervistati e i genitori anziani riguarderebbero il 46% dei dipendenti. Prenderei poi con cautela altre ricerche che indicano il 50% dei lavoratori “non felici” o il 25% di dipendenti che “remano contro” la propria azienda, ma, come ben sappiamo noi di Risorsa il fenomeno dei lavoratori che hanno subito mobbing esiste…eccome!. Tornando invece a dati più sicuri ed oggettivi vengono citate ricerche sui “fringe” più richiesti (che, dalle mie esperienze di anni vedo essere sempre gli stessi (dai buoni sconto o pasto, agli sconti presso partner convenzionati, al wellness fisico, come le palestre). Anche qui mancano richieste più culturali, tanto è vero che, dalla collaborazione tra profit e non profit è nata l’iniziativa di dare buoni sconto per l’acquisto di libri da scegliere presso un libraio (non da Amazon !). Altre aziende, grazie al cambio di prospettiva dei managers HR, hanno creato sportelli di aiuto psicologico e di counseling ai dipendenti per problematiche lavorative ed extra lavorative. Come rappresentante di Risorsa, considero una grande innovazione il suo Gruppo di Mutuo Aiuto per il disagio grave sul lavoro. Il welfare aziendale ha consentito anche ai dipendenti di alcune grandi di poter scegliere forme di volontariato a loro più consone, che hanno portato, ad es. a fornire addetti alla pulizia delle spiagge o alla distribuzione di pasti in enti religiosi. Non a caso ho parlato di “grandi aziende” in quanto la contraddizione sta nella loro scarsa presenza sul territorio, dove prevalgono, con oltre il 90% piccole aziende più restie ad applicare principi di welfare. La soluzione sarebbe che questi piccoli si aggregassero in rete per poter offrire servizi di welfare, il che garantirebbe, secondo me, l’accettazione delle piccole aziende come fornitori delle grandi, accrescendo la catena del valore. Il rincrescimento di uno dei relatori, da me particolarmente condivisibile, è che continui a mancare quello che dovrebbe essere il primo degli esempi di welfare aziendale, cioè la sicurezza sul lavoro, che giornalmente miete vittime.

La domanda che alla fine del convegno mi pongo (ed è esclusivamente un parere personale) è se il sistema di welfare aziendale snaturi il senso “universalistico” del welfare statale nazionale e regionale. Se da un lato non è giusto che di tale welfare usufruiscano solo pochi lavoratori è altrettanto vero che il concetto aziendalistico era già presente negli “imprenditori illuminati” del ‘900 – su tutti  Adriano Olivetti – non certo classificabili come “liberisti”

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